NEL SEGNO DI MARTE
di RENATO DEL PONTE.
Estratto da “Dèi e miti italici”.
Edizioni Arŷa, Genova 2020.
È stato opportunamente sottolineato che probabilmente “non è il culto di Giove la manifestazione più antica presso gli Italici”. Le tradizioni connesse al ver sacrum, che, abbiamo visto, rimandano alla più alta “preistoria politica d’Italia”, si ricongiungono tutte, infatti, alla figura di Marte, dio della guerra — e in origine rappresentato semplicemente come un’asta militare, curis — e nel contempo protettore (armato…) delle pacifiche attività agricole e pastorali. Così, come difensore armato, poteva essere invocato dai guerrieri prima della battaglia e dai contadini prima della lustrazione dei campi, con offerta di frutta e sacrifici di messi, fare da patrono ai bellicosi Salii ed ai pacifici Fratres Arvali.
Il Preller è dell’avviso che il ver sacrum appare “nei tempi più antichi tradizionalmente proprio solo nel culto di Marte (…) che, accanto a Giove, era il vero dio principale e capostipite della popolazione italica”. Ora, se in seguito ad un ver sacrum il popolo originato dalla migrazione della juventus porta nel proprio nome quello di uno degli animali sacri a Marte, come il picchio, il toro, il lupo, oppure si dice che uno di loro era alla loro testa al momento dell’esodo, si può concludere senz’altro che le primavere sacre venivano dedicate a Marte: ed era proprio con il suo mese, Martius, che la primavera, rinnovellatrice della natura, e lo stesso anno, avevano inizio a Roma e presso i più antichi Indiani. Del resto, quello che gli era consacrato doveva essere soltanto “quod natum esset inter Kalendas Martias et pridie Kalendas Maias”, cioè compreso fra il 1° marzo ed il 30 aprile.
Ecco dunque generarsi dalla terra dei Sabini, come frutto della più antica ondata di queste migrazioni, quei Picentes “voto vere sacro” che, provenendo dalla conca di Norcia, sono discesi nella valle del Tronto, di là diffondendosi: in Ascoli hanno avuto la loro capitale, in Cupra il santuario famoso di una loro dea. “Picena regio, in qua est Ausculum, dicta quod Sabini, cum Ausculum proficiscerentur, in vexillo eorum picus consederat”, afferma Festo: questo picchio che si è posato sulla loro insegna militare e li ha, per così dire, “adottati”, “ha mostrato loro il cammino… ed è sacro a Marte”, aggiunge espressamente Strabone.
In quanto ai Marsi, discesi nella valle del Salto, “hanno un nome di origine sacra, quindi assunto nell’occasione della primavera sacra che li staccava dal tronco sabino”. La loro diretta connessione al dio li avvicina a quei Mamertini campani che, consacrati in un versacrum nel Sannio e votati a Mamers — il Marte osco — fonderanno in Sicilia l’ultimo degli Stati italici indipendenti (289–264 a.C.): quella Messina che secondo un rito antichissimo si consacrò a Mamerte e si chiamò touto Mamertino (“popolo di Marte”).
Dal lago di Cotilia — che Dionisio ci ha riferito essere “sacro alla Vittoria” — il centro di migrazione si sposta al Fucino e dal Fucino al Sangro. Di qui comincia il territorio dei Sanniti, il cui nome il Devoto considera derivato dalla stessa radice sabh- presente nel lat. Sabini, designante il vero nome nazionale degli Italici. I Sabini, afflitti dagli attacchi degli Umbri, consacrarono a Marte i figli nati in quella primavera e questi, raggiunta l’età adulta, partirono verso il sud in numero di circa settemila condotti da un toro selvatico mandato dal dio, avendo alla testa un certo Cominius Castronius. Giunti nel paese dei protolatini Opici, immolarono il toro a Marte e vi si stanziarono, fondando sul luogo Bovianum, l’antica capitale sannita, che reca nel nome il ricordo dell’animale divino. Tale scena probabilmente appare in una rozza moneta sannita, che nel rovescio mostra un giovane guerriero stante su una lancia tra un albero (o trofeo) e un toro giacente: personificazione forse di Cominius Castronius che, allo sdraiarsi del toro marzio, prende possesso del suolo a nome della juventus sabina.