L’OCCULTAMENTO E LA CUSTODIA
DEI SACRI ARREDI
di TITO LIVIO PATAVINO.
Estratto da “Hic manebimus optime!“.
A cura di Renato Del Ponte.
Edizioni Arŷa, Genova 2015.
Nel frattempo il flamine Quirinale(1) e le vergini Vestali, tralasciata la cura delle cose personali, consultandosi su quali arredi sacri dovessero portare con sé e quali dovessero lasciare (dal momento che non c’erano le forze per portare tutto), e quale fosse il luogo destinato a conservarli in sicura custodia, ritennero la scelta migliore che fossero seppelliti rinchiusi in piccoli recipienti (doliola) in un sacello nei pressi della dimora del flamine Quirinale, lì dove ora è divieto religioso sputare;(2) diviso tra loro il carico degli altri oggetti,(3) lo trasportarono per la via che conduce attraverso il ponte Sublicio al Gianicolo. Su quella salita avendole viste il plebeo Lucio Albinio mentre trasportava su un carro la moglie e i figli in mezzo alla folla che, non abile alle armi, usciva dalla città, rispettata anche in quel frangente la distinzione fra le cose divine e le umane, ritenendo sacrilego che le pubbliche sacerdotesse procedessero a piedi recando i sacri arredi del popolo romano e che lui e i suoi famigliari potessero essere visti su un mezzo di trasporto, fece scendere la moglie e i ragazzi e pose sul carro le vergini ed i sacri arredi e li trasportò a Cere, dove erano dirette le sacerdotesse.
Flamen interim Quirinalis virginesque Vestales, omissa rerum suarum cura, quae sacrorum secum ferenda, quae, quia vires ad omnia ferenda deerant, relinquenda essent consultantes, quisve ea locus fìdeli adservaturus custodia esset, optimum ducunt condita in doliolis sacello proximo aedibus flaminis Quirinalis, ubi nunc despui religio est, defodere; cetera inter se onere partito ferunt via quae sublicio ponte ducit ad Ianiculum. In eo clivo eas cum L. Albinius, de plebe [Romana] homo, conspexisset plaustro coniugem ac liberos avehens inter ceteram turbam quae inutilis bello urbe excedebat, salvo etiam tum discrimine divinarum humanarumque rerum, religiosum ratus sacerdotes publicas sacraque populi Romani pedibus ire ferrique, se ac suos in vehiculo conspici, descendere uxorem ac pueros iussit, virgines sacraque in plaustrum imposuit et Caere, quo iter sacerdotibus erat, pervexit.
NOTE
1) Salvo un’eccezione, non ci risulta che nessuno studioso della religione romana abbia approfondito il problema del motivo per cui proprio al flamine Quirinale fosse stato affidato l’incarico di occultare e mettere in salvo i sacri arredi (per le Vestali la cosa si comprende meglio). L’eccezione è costituita da Filippo Coarelli, che nel suo Foro Romano, vol. I, cit., pp. 282–298, si diffonde sui Doliola (vedi nota seguente). Nella sua interpretazione i culti officiati dal flamine Qurinale avrebbero tutti “caratteristiche ‘ctonie’ e ‘funerarie’ ” (si tratta di culti celebrati alle Quirinalia, Larentalia, Consualia e Robigalia). A nostro giudizio, “ctonio” non necessariamente può o deve riferirsi a “funerario”, anche se certi risultati archeologici del sito da lui identificato come Doliola nel Foro potrebbero confermarlo (vedi sempre nota seguente). Nel caso specifico il flamine qui agisce come sacerdote del dio “patrono degli uomini considerati nella loro totalità organica e veglia sulla sussistenza, il benessere, la durata della massa cittadina considerata nella sua globalità” (DEL PONTE, RR, p. 170; vedi anche DEL PONTE, FL, pp. 78–79). Questo flamine dispone inoltre di una capacità di movimento che sappiamo non concepibile per il flamine di Giove, il quale si presume si fosse rifugiato, in questo frangente, sul Campidoglio (dove probabilmente era anche il flamine di Marte, la cui presenza su quel colle – ultimo ridotto della resistenza romana – sarebbe stata necessaria in vista delle operazioni contro i Galli.
2) Tra le fonti circa questo divieto e i Doliola c’è anche FEST. (PAUL.), p. 60 L. (che riporta le stesse cose di Livio) e VARR., L.L. 5, 157, che afferma invece: “Due sono le versioni su di essi (i Doliola) tramandate: secondo alcuni dovevano contenere ossa umane, secondo altri, oggetti sacri appartenenti a Numa Pompilio e ivi interrati dopo la sua morte”. Su questa base e sul fatto che gli scavi del Boni nel Foro nella zona del cosiddetto equus Domitiani misero alla luce un gruppo di cinque vasi arcaici perfettamente conservati in una teca di travertino e risalenti al secondo quarto del VII sec. a.C. e, infine, a circa 6 metri di profondità, due scheletri immersi nell’argilla (di una giovinetta con un feto di tre mesi e di un giovane di 25–30 anni), il Coarelli ha potuto parlare di resti di un sacrificio umano avvenuto in epoca arcaica. Per lui “i Doliola… non sarebbero altro che il monumento commemorativo, l’heroon collettivo legato alla celebrazione… di sacrifici umani offerti alle divinità infere del vicino Velabro”. In quanto ai vasi arcaici, essi costituirebbero “in un certo senso, il corredo delle persone sacrificate nelle immediate vicinanze” (p. 298). Certamente, tutta la questione presenta lati oscuri e non può essere risolta con facilità, vista anche la contradditorietà delle fonti. Tuttavia, al di là della ricostruzione indubbiamente suggestiva del Coarelli, nel contesto riferito all’invasione gallica ci appare preferibile accogliere la versione di Livio (e di Festo), che appunto restituisce al flamines Quirinale la sua funzione “provvidenziale” per la comunità dei Quiriti, cioé di tutti i cittadini optimo iure. Inoltre, in relazione al gruppo di vasi arcaici, al cui interno fu trovata una pepita d’oro e scaglie di tartaruga, non so proprio come si possa definirli “corredo delle persone sacrificate”, dal momento che la presenza della pepita d’oro e delle scaglie di tartaruga rimanda ad un’offerta primaziale ad una divinità importante. L’oro nativo e la tartaruga fanno pensare al mondo delle origini e alla sfera delle acque (siamo nei pressi del Velabro e del Lacus Curtius), sfera in cui si sa come si fosse mosso a suo agio re Numa Pompilio a cui, come si è visto, rimanda la citazione precedentemente fatta da Varrone: mi riferisco al rapporto di questo re-sciamano con la ninfa Egeria e alle sue capacità di divinazione tramite l’elemento acquatico (idromanzia). Cfr. DEL PONTE, FL, pp. 24–30. Aggiungo che la regia di Numa si trovava nei pressi e adiacente la casa delle Vestali. Inoltre, secondo indagini più recenti (2006), i due scheletri rinvenuti a 6 metri di profondità, sulla base di datazione radiocarbonica, potrebbero appartenere ad un’epoca assai arcaica e di gran lunga antecedente la fondazione della città (XII‑X secolo a.C. — età del Bronzo Recente-Finale). In tal caso (se effettivamente provato) sarebbe da escludere l’ipotesi del supplizio di una vestale infedele e del suo amante (come qualcuno ha detto), seppelliti insieme in un’epoca antecedente al rituale prescritto dal primo Tarquinio.
3) Ci si riferisce, con tutta evidenza, agli oggetti sacri custoditi nel tempio di Vesta, fra cui un fascinus, e soprattutto al famoso Palladio di Troia, il quale, custodito nella parte più recondita del tempio, poteva essere avvicinato solo dalla virgo Vestalis Maxima: certamente esso fu recato dalle Vestali a Cere. Su Palladio si vedano: M. BAISTROCCHI, Arcana Urbis, Roma 20092, pp. 312–314 e A. PELLIZZARI, Servio, Firenze 2003, pp. 49–60.